di Silvia Lattanzi
1. Il “primo” Wittgenstein e la teoria raffigurativa del linguaggio.
Wittgenstein vede la filosofia come analisi del linguaggio e il problema a cui vuole trovare soluzione durante tutta la sua vita è l’individuazione delle condizioni in base alle quali il linguaggio è dotato di senso.
Nel Tractatus il pensiero è identificato con il linguaggio, il quale è visto come una perfetta rappresentazione della realtà. Il problema cruciale diventa, allora, il rapporto tra linguaggio e realtà, dato che il linguaggio rappresenta il mezzo di espressione del pensiero. Per risolvere questo problema Wittgenstein elabora la sua celebre “teoria raffigurativa del linguaggio”, basata sull’idea secondo cui tra il linguaggio e il mondo esiste un isomorfismo strutturale e se il mondo è inteso come la totalità dei fatti, il linguaggio diventa una totalità di proposizioni che significano i fatti. A ogni fatto, ossia a ogni elemento della realtà, corrisponde una parola che lo designa, ossia un elemento del linguaggio.
La realtà è un insieme strutturato di fatti e un fatto è, a sua volta, una struttura organizzata di cose, le quali non possono essere ulteriormente suddivise in altri elementi. Nell’elaborazione di questa teoria Wittgenstein si riferisce a una concezione realistica del mondo, il cui fondamento gnoseologico è empiristico: si può parlare solo di ciò che costituisce un fatto. Non si può esprimere e quindi non si può pensare niente di tutto ciò che esula dai fatti.
La “teoria raffigurativa del linguaggio” afferma che la lingua, l’insieme delle proposizioni dotate di senso, svolge un unico compito: denominare le cose. Ogni proposizione del linguaggio verbale è una raffigurazione di fatti e la raffigurazione, descrivendo un possibile modo d’essere delle cose che costituiscono i fatti, è una rappresentazione formale, di ordine logico e non una semplice copia della realtà.
Il linguaggio scientifico è quello che ha la funzione di far corrispondere la struttura delle proposizioni dotate di senso a quella della realtà e, quindi, “l’unico linguaggio dotato di senso è quello delle scienze naturali”(Wittgenstein, 1921).
2. Il “primo” Wittgenstein e il compito della filosofia.
Wittgenstein afferma che gran parte delle domande che si è posta la filosofia fino a quel momento sono da eliminare in quanto si generano da un uso inadeguato del linguaggio. Il linguaggio ha la funzione di descrivere i fatti e gran parte delle affermazioni della filosofia si pongono al di fuori dei fatti del mondo descrivibili. Non si può dire nulla su ciò che supera i limiti del linguaggio raffigurativo, l’unico che abbia senso, quindi il ruolo a cui compete la filosofia è quello di chiarire il significato delle proposizioni linguistiche, tracciando i limiti del pensiero, individuando i confini tra ciò che può essere descritto, quindi pensato, e ciò che non lo è. La filosofia è un’attività di chiarificazione e non una teoria.
3. Il “secondo” Wittgenstein e la teoria dei “giochi linguistici”.
Dopo la pubblicazione del Tractatus Wittgenstein attraversa un periodo di silenzio e riflessione che trascorre insegnando nelle scuole elementari di villaggi austriaci. Il contatto quotidiano con il “linguaggio reale dei bambini” delle scuole elementari e alcune discussioni intellettuali con il matematico Frank Ramsey e l’economista Piero Sraffa conducono Wittgenstein ad avvertire che nella sua analisi filosofica aspetti fondamentali dell’esperienza umana non erano stati affrontati.
Nel 1929 torna a Cambridge e rivede la sua posizione teorica elaborando una “seconda filosofia” e adottando una diversa interpretazione del linguaggio. Egli si allontana dalle soluzioni del Tractatus e la sua nuova prospettiva filosofica culmina nell’opera delle Ricerche filosofiche.
L’indagine si focalizza ora sull’ambito della vita quotidiana, sull’esame delle esperienze della vita sociale e c’è il passaggio dal linguaggio logico – formale al linguaggio comune, quotidiano. L’obiettivo di Wittgenstein è descrivere e mostrare il mondo pluralista di tale linguaggio.
Il filosofo rifiuta l’idea di un linguaggio perfetto sostenendo che nel linguaggio quotidiano non può essere identificata una struttura formale unitaria, ma che esiste una molteplicità di pratiche linguistiche. Il linguaggio raffigurativo diventa uno dei possibili linguaggi esistenti nella quotidianità. Esso si trova sullo stesso livello dei linguaggi con cui non si denomina nulla, ad esempio le esclamazioni, le preghiere, le implorazioni, e sullo stesso livello di miriadi di atti (cantare, raccontare, inventare storie, imitare) con cui l’uomo svolge le funzioni più varie.
Ripudiando la teoria di un linguaggio dotato di essenza logica, strutturalmente simile a un mondo logico, l’autore giunge a pensare che la comprensione dei significati del linguaggio risieda nei suoi svariati modi d’uso nei diversi ambiti della vita quotidiana. L’osservazione di come una frase viene utilizzata in pratica permette di coglierne il senso. Il significato di una parola varia in relazione al contesto in cui è inserita, i suoi significati sono quindi posizionali e non “essenziali”, generati da presupposti pratici e non teoretici.
I modi d’uso del linguaggio, che Wittgenstein chiama “giochi linguistici” sono innumerevoli. Questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte, ma cambia continuamente così che, di volta in volta, nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, si affermano mentre altri invecchiano e vengono dimenticati.
4. Le “forme di vita”.
Il linguaggio è descritto da Wittgenstein come un insieme di “giochilinguistici”, dove il significato di una parola è il suo uso in un particolare contesto. Il mettere in atto un tipo di “gioco linguistico” fa parte di un’attività e come tale è costruita in base a delle regole. In questo senso il concetto di gioco linguistico rimanda direttamente a quello di “forma di vita”: il gioco, e quindi il linguaggio, non possono essere visti come un codice astratto di regole, ma devono essere considerati come attività fondate su regole semantiche e sintattiche, stabilite e condivise da una comunità umana. Il linguaggio fa parte di una forma di vita nel senso che si trova in relazione con una particolare situazione pragmatica, vive e si trasforma in un contesto di abitudini, simboli e credenze umane.
5. Il “secondo” Wittgenstein e il compito della filosofia.
Teoricamente nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein non cambia idea su quello che è il compito della filosofia, che rimane sostanzialmente quello di descrivere il linguaggio. Ciò che muta è il tipo di linguaggio a cui la filosofia deve riferirsi, non più quello perfetto delle scienze naturali, ma quello molteplice della quotidianità. Esprimendosi in modo più consono si può affermare che il compito della filosofia è analizzare gli infiniti modi di usare il linguaggio.
6. Wittgenstein e il Postmodernismo.
È l’idea di Ludwig Wittgenstein secondo cui il linguaggio può essere considerato come un mezzo di comunicazione che si lega all’azione quotidiana dell’uomo ad avviare la linea di riflessione che caratterizza il pensiero postmoderno.
La prospettiva postmoderna vede il linguaggio come un complesso sistema simbolico generato dall’insieme degli artefatti umani che si creano in seno ad ogni cultura e che risultano essere fondamentali per la costruzione di una comunicazione dotata di senso. Se si vuole comprendere l’uomo è fondamentale partire dal tipo di linguaggio che egli utilizza in quanto in esso sono racchiusi i significati che egli pone a fondamento della propria azione, la quale è il veicolo costruttore della realtà quotidiana.
Per poter studiare ciò che gli uomini interpersonalmente e intrapersonalmente costruiscono a livello sociale si deve far riferimento alle parole e ai gesti che essi scelgono di utilizzare per esprimersi. Le parole e i gesti devono essere analizzati nei loro modi e contesti d’utilizzo in relazione al sistema culturale a cui gli uomini che li scelgono appartengono. Il sistema culturale è una discriminante fondamentale che evidenzia come una parola o un gesto non esprimono un unico significato possibile, in quanto uomini di culture diverse possono esprimersi in modo diverso nello stesso contesto. Anche il contesto risulta essere una discriminante fondamentale, infatti una stessa espressione può acquistare significati diversi in contesti diversi. Può anche succedere che uomini appartenenti alla stessa cultura scelgano di esprimersi in modo diverso in contesti uguali, evidenziando così l’importanza del “concetto di sé” nella scelta del proprio modo di agire.
Il linguaggio è il “mediatore” della costruzione della realtà, o in modo più adeguato, del rapporto che lega l’uomo, la sua azione e il contesto in cui egli vive. Il rapporto può essere visto come un processo circolare in cui esiste una molteplicità di possibili interpretazioni e non come un meccanismo lineare di causa effetto in cui è possibile un’unica spiegazione “perfetta”. Anche il linguaggio può essere visto come una pluralità di possibili funzioni e non come un’ unica e “perfetta” funzione, ossia quella di denominare gli oggetti, che rientra nella pluralità. Da questo punto di vista linguaggio e realtà si trovano in un rapporto di reciproca dipendenza.
Nella realtà generata dai “giochi linguistici” non esiste più nulla di certo e universalmente valido, ma tutto acquista significato in base ai “giochi” che ogni uomo sceglie di mettere in atto in uno specifico contesto, in base al riferimento culturale a cui l’uomo appartiene e in base al proprio Sé.
Il rifiuto della teoria raffigurativa del linguaggio, la conseguente negazione di una struttura logica del mondo universalmente valida e l’assunzione di un linguaggio che costruisce il mondo ed esprime il Sé degli individui risultano essere delle profonde innovazioni nella storia del pensiero. Gli studiosi non potranno mai studiare una realtà vera in sé in quanto essa non può esistere, ma possono studiare solamente ciò che gli uomini considerano reale.
FONTE: http://www.scienzepostmoderne.org/DiversiAutori/Brand/PensieroBrand.html
Il pensiero di Ludwig Wittgenstein
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